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Gli eroi con le ginocchiere: come i cartoni degli anni ’80 hanno educato i maschi italiani

Ti lascio il mio posto, Mazinga. Ma solo per cinque minuti.

L’immaginario formativo dei maschi italiani cresciuti negli anni ’70–’90, plasmato da cartoni animati giapponesi e avventure eroiche che hanno insegnato modelli di forza, sacrificio, cameratismo e solitudine.


C’è una generazione di uomini italiani – oggi quarantenni e cinquantenni – che ha imparato cosa significhi essere “uomo” non da un padre, ma da un cartone animato.Non dalle parole, ma dalle sigle urlate da Cristina D’Avena.Non dai consigli, ma dai campi da calcio infiniti, dai pugni atomici e dalle maschere di tigre.

Loro sono i figli di Olly & Benji, L’Uomo Tigre, Lupin III, Ufo Robot e Mazinga Zeta.Un pantheon di eroi sudati, solitari, esagerati.E dietro ogni pallone, pugno o robot, c’era un messaggio non detto che ha plasmato l’educazione sentimentale, morale e fisica di una generazione maschile cresciuta a metà tra l’eroismo e il burnout.


Olly & Benji: l’epica del sacrificio

Il calcio, negli anni ’80, non era ancora un brand. Era una religione televisiva.Captain Tsubasa (in Italia Holly e Benji), trasmesso dal 1983, non era solo un anime sportivo: era un trattato di etica del lavoro travestito da partita infinita.Campi sterminati, allenamenti fino allo sfinimento, amicizie virili costruite sul sudore.Olly non giocava per vincere: giocava per diventare degno della vittoria.

In questo universo, il dolore non è un limite ma un linguaggio.Ogni caduta, ogni ginocchio sbucciato, ogni pallone respinto dal volto diventa un atto di fede nel sacrificio.È il paradigma dell’“uomo che non si ferma mai”, di cui parla lo storico George L. Mosse in Le origini culturali del Terzo Reich: il maschio che si definisce nel controllo del corpo e nella sopportazione del dolore.

Gli uomini cresciuti con Olly e Benji hanno interiorizzato un’idea di virilità fondata sul rendimento, sulla resilienza, sulla solitudine.E quando oggi un manager cinquantenne rifiuta di “staccare”, di mostrare debolezza o di dire “non ce la faccio”, è probabile che, da bambino, abbia sentito la voce di Benji Price urlare:

“Non importa se ti spezzi le dita. L’importante è parare.”

L’Uomo Tigre: la maschera e il martirio

Tiger Mask (1969) era un cartone sul wrestling, ma anche una parabola cristologica in chiave pop.Dietro la maschera, Naoto Date combatteva per riscattare i bambini dell’orfanotrofio in cui era cresciuto.Era il martire virile, il guerriero che soffre in silenzio e non cerca mai applausi.

L’Uomo Tigre ha insegnato ai maschi italiani che la forza è sacrificio, non potere.Che il dolore non si mostra, si sublima.Un modello di mascolinità stoica, affine all’ideale del “santo laico” di Roland Barthes: un corpo che si fa simbolo, che sanguina ma non cede.

Eppure, dietro quella forza, si nascondeva una ferita enorme: l’impossibilità di chiedere aiuto.Molti uomini di oggi portano quella stessa maschera invisibile.Nessuno li ha mai educati a dire “ho paura”.Solo a rialzarsi e combattere, anche quando nessuno guarda.


Lupin III: l’ironia come armatura

Dopo la fatica e il sacrificio, arrivava Lupin – il ladro gentiluomo di Monkey Punch.Qui la virilità cambiava tono: diventava intelligenza, ironia, gioco.Lupin è il trickster postmoderno di cui parla Umberto Eco: un eroe che sa di essere in una fiction, e che per questo può permettersi di ridere del potere, del sesso, del pericolo.

Cresciuti con Lupin, i ragazzi imparavano che si può essere affascinanti anche nella sconfitta, che la seduzione è una danza, non una conquista.E che una donna come Fujiko non si possiede: si insegue, si teme, si ammira.

Ma Lupin, sotto la risata, è anche l’uomo che non riesce mai a fermarsi.Che vive di fuga in fuga, senza casa e senza quiete.È il maschio che confonde libertà con instabilità, passione con ansia.Un modello che ha affascinato e dannato generazioni intere di uomini brillanti, ma incapaci di restare.


Ufo Robot e Mazinga: l’educazione meccanica all’eroismo

Goldrake e Mazinga Zeta furono l’imprinting tecnologico di un’intera infanzia.Giganti d’acciaio pilotati da ragazzi soli, orfani, destinati a salvare la Terra ma non se stessi.Actarus, Koji Kabuto, Tetsuya Tsurugi: tutti ragazzi traumatizzati che combattono per dovere, non per piacere.

Questi anime, come osserva il critico Matteo Stefanelli nel volume Anime. Storia del cinema d’animazione giapponese, introdussero nel pubblico italiano un immaginario nuovo: quello del corpo-macchina, in cui la sensibilità è sacrificata all’efficienza.L’uomo non è più umano: è un motore da guerra che deve funzionare, anche se si consuma.

Non sorprende che molti di quei bambini, oggi adulti, siano diventati workaholic, ingegneri dell’esistenza, professionisti che vivono in modalità robotica.Il “pugno atomico” è diventato il multitasking, il “raggio fotonico” la mail inviata di notte.La missione di Actarus – salvare il pianeta a costo della propria umanità – è la metafora perfetta del maschio contemporaneo che salva tutto, tranne sé stesso.


Dagli eroi ai sopravvissuti: il maschio post-atomico

Guardando in retrospettiva, quei cartoni erano una palestra di virilità mitologica, costruita su tre pilastri:

  1. Il sacrificio (Olly & Benji)

  2. La maschera (L’Uomo Tigre)

  3. Il controllo (Mazinga e Goldrake)

Ma anche una fuga, rappresentata da Lupin: il desiderio di non essere mai ingabbiato.

Gli uomini di oggi portano tutto questo dentro.Sono i figli di un immaginario che ha confuso la forza con l’invulnerabilità, il coraggio con la solitudine.Eppure, in quell’eccesso eroico, c’era anche una purezza d’intenti: la voglia di fare bene, di proteggere, di meritare.

Forse per questo, anche oggi, quando la vita chiede troppo, un cinquantenne italiano non crolla del tutto.Si rimette la maschera, stringe i denti e pensa, senza dirlo a nessuno:

“Ti lascio il mio posto, Mazinga. Ma solo per cinque minuti.”

L’ultima lezione dei robot

Gli eroi animati degli anni ’80 non erano solo intrattenimento: erano manuali di sopravvivenza emotiva in un’epoca in cui nessuno parlava di fragilità.Hanno insegnato la lealtà, la concentrazione, la disciplina.Ma hanno anche insegnato a non chiedere aiuto, a non piangere, a non fermarsi.

Oggi, il compito degli stessi uomini è disimparare una parte di quella lezione.Rimettere il robot nel garage.Togliersi la maschera.E ammettere che anche il portiere più forte, prima o poi, deve lasciare passare un gol.


Fonti e riferimenti

  • George L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich (1966)

  • Roland Barthes, Mitologie (1957)

  • Umberto Eco, Apocalittici e integrati (1964)

  • Henry Jenkins, Textual Poachers (1992)

  • Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare (1964)

  • Susan Faludi, Stiffed: The Betrayal of the American Man (1999)

  • Matteo Stefanelli, Anime. Storia del cinema d’animazione giapponese (2010)

  • Go Nagai, Mazinger Z (1972) / UFO Robot Grendizer (1975)

  • Monkey Punch, Lupin III (1967)

  • Ikki Kajiwara & Naoki Tsuji, Tiger Mask (1968)

  • Yōichi Takahashi, Captain Tsubasa (1981)

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