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Da Happy Days a Beverly Hills: la lunga adolescenza della cultura pop


C’è un momento, nella memoria collettiva, in cui la televisione smette di essere intrattenimento e comincia a diventare educazione sentimentale.


Accade negli anni Settanta, quando le famiglie italiane accendono la TV e trovano non più solo varietà e caroselli, ma modelli: Happy Days, La famiglia Bradford, Grease.

E poi, dieci o quindici anni dopo, Beverly Hills 90210.

Storie di ragazzi, famiglie, amori e ribellioni che sembravano leggere — e invece stavano insegnando, silenziosamente, come si cresce, come si ama, come si appartiene.


Happy Days – Il mito della normalità felice

Negli anni del disincanto post-‘68, mentre l’America reale scivola nel Vietnam, nello scandalo Watergate e nella crisi petrolifera, Happy Days (1974–1984) inventa una nostalgia.

È il mito di un passato idealizzato, gli anni Cinquanta della giovinezza dei genitori, dove tutto sembra innocente: il diner, i juke-box, le gonne a ruota, Fonzie che aggiusta la realtà con un pugno.

Ma sotto la superficie rassicurante, Happy Days costruisce un modello di ordine sociale: la famiglia stabile, l’amicizia virile, la femminilità dolce ma disciplinata.

Fonzie è il ribelle integrato, il “cattivo buono” che rispetta la famiglia Cunningham più di quanto non sembri.

È la prova che la devianza, se addomesticata, può servire a rafforzare il sistema.

Il messaggio, culturalmente potente, è chiaro: la libertà individuale è concessa, purché non metta in discussione la struttura sociale.

È la televisione come dispositivo pedagogico del sogno americano.

Un sogno che — non a caso — l’Italia del boom economico adottò come proprio.


La famiglia Bradford – Il disincanto dolce

Con Eight Is Enough (1977–1981), l’America televisiva compie un passo avanti.

Niente più famiglie perfette: Tom Bradford è un padre vedovo, giornalista, che cresce otto figli con fatica, ironia e onestà.

La serie porta in scena, per la prima volta in un prime time popolare, la vulnerabilità della figura paterna, la crisi economica, il lutto, il divorzio, la precarietà del lavoro.

La casa dei Bradford non è più il microcosmo idilliaco dei Cunningham, ma un laboratorio affettivo in cui ogni figlio rappresenta una sfaccettatura diversa della società americana: l’idealismo, il pragmatismo, la ribellione, la paura di fallire.

Nata in un’epoca segnata da cambiamenti radicali (il femminismo, i diritti civili, la fine dell’innocenza post-Vietnam), La famiglia Bradford racconta la complessità come nuova normalità.

Non c’è più il modello unico, ma la convivenza di differenze, il compromesso, la fragilità come valore etico.

È un messaggio sociologicamente cruciale: la famiglia non è più “esempio”, ma specchio.


Grease – Il musical dell’adolescenza eterna

Quando Grease (1978) esce al cinema, sembra la prosecuzione naturale di Happy Days: ambientazione anni ’50, liceo, brillantina, ritmo travolgente.

Ma dietro la superficie pop e la danza di Travolta e Newton-John, c’è qualcosa di più profondo: la prima estetizzazione globale dell’adolescenza come stile di vita.

“Forever young” diventa non solo una canzone, ma una promessa culturale: la giovinezza non finisce mai, si può rimanere adolescenti anche a trent’anni, a cinquanta, a sessanta — basta vestirsi, parlare, desiderare come se tutto fosse ancora possibile.

Grease segna l’inizio di una nuova pedagogia: l’emotività come merce culturale.

Il liceo diventa l’epicentro del mito americano, l’archetipo di ogni crescita, anche per chi il liceo non l’ha mai vissuto.

È la nostalgia che si fa industria, la ribellione che si fa marketing.


Beverly Hills 90210 – L’America che cresce, ma non cambia

Quando arriva Beverly Hills 90210 (1990–2000), la generazione che aveva amato Fonzie e Danny Zuko è ormai adulta.

Eppure torna, davanti allo schermo, con i propri figli, a guardare Brandon, Brenda, Kelly, Dylan.

È l’adolescenza che si ripete, ma questa volta con un sottofondo di ansia sociale e desiderio di status.

Lì dove Fonzie risolveva tutto con un sorriso, Dylan si perde nella dipendenza.

Lì dove i Bradford cercavano unità, i ragazzi di Beverly Hills cercano senso.

Ma il nucleo ideologico è lo stesso: l’individuo al centro, la realizzazione personale come unico orizzonte.

Solo che, negli anni ’90, quella libertà è diventata condizione obbligatoria: non un diritto, ma un dovere di successo.

La serie di Aaron Spelling traduce in chiave glamour il sogno americano degli anni ’50 e ’70: non più l’armonia familiare, ma la performance identitaria.

È la società dello spettacolo (Debord, 1967) nella sua versione adolescenziale.

La gioventù non è più una fase della vita: è un marchio collettivo.


Il filo rosso: la gioventù come ideologia

Da Happy Days a Beverly Hills, passando per La famiglia Bradford e Grease, il percorso è chiaro:la televisione americana ha progressivamente sostituito la famiglia reale con la famiglia mediatica, la crescita biologica con quella estetica, l’etica con l’emozione.

Dietro ogni serie, ci sono intenti economici e politici: consolidare modelli di consumo, normalizzare desideri, rendere accettabile l’idea che l’identità sia qualcosa che si compra, si costruisce, si indossa.

La ribellione di Fonzie, la tenerezza dei Bradford, la sensualità di Sandy, la fragilità di Brenda: sono tutte declinazioni della stessa pedagogia invisibile.

La libertà non è più una conquista collettiva, ma un mito personale, sponsorizzato.

E noi, spettatori di più generazioni, ne siamo stati gli alunni più devoti.

Abbiamo imparato a parlare d’amore attraverso battute da sitcom, a riconoscere la “normalità” nei gesti televisivi, a desiderare il mondo come set.


La lunga adolescenza dell’Occidente

C’è una coerenza profonda in tutto questo: la cultura pop occidentale non smette di raccontare la giovinezza perché non sa più cosa raccontare dopo.

Il lavoro, la politica, la comunità — tutti orizzonti adulti — sono diventati scenari opachi.

Resta solo l’adolescenza, eterna e fotogenica, come ultimo mito condiviso.

Ma riconoscere questo meccanismo non significa rinnegarlo.

Significa comprenderlo, e usarlo come chiave di lettura del presente: una società che resta adolescente non perché è immatura, ma perché ha paura di lasciare modi e modelli, di uscire dalla propria zona di comfort.


Bibliografia essenziale

  • Morin, E. (1962). L’esprit du temps: essais sur la culture de masse. Paris: Grasset.

  • Hall, S. (1980). Encoding/Decoding. In Culture, Media, Language. London: Routledge.

  • Kellner, D. (1995). Media Culture: Cultural Studies, Identity, and Politics between the Modern and the Postmodern. Routledge.

  • Jenkins, H. (1992). Textual Poachers: Television Fans and Participatory Culture. Routledge.

  • Eco, U. (1979). Lector in fabula. Milano: Bompiani.

  • Debord, G. (1967). La société du spectacle. Buchet-Chastel.

  • Dyer, R. (1993). The Matter of Images: Essays on Representations. Routledge.

  • Ouellette, L. (2004). Viewers Like You? How Public TV Failed the People. Columbia University Press.

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