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Negli anni 80 siam cresciuti con Lady Oscar, Candy Candy, Pollon e Lamù

Monsieur, la mia spada è più affilata delle sue opinioni.

C’è una generazione – oggi cinquantenne – che ha imparato l’amore, la libertà e la dignità non dai genitori, ma dai cartoni animati del pomeriggio.Prima che le principesse Disney riscrivessero il concetto di “happy ending”, c’erano orfane bionde, generali travestite da uomini e aliene in bikini tigrato. Cresciute tra Candy Candy, Lady Oscar, Pollon e Lamù, le bambine italiane nate tra il 1970 e il 1980 si sono formate su modelli ambigui, contraddittori e per questo potentemente formativi.È da lì che nasce la generazione di donne (e uomini) che oggi si ritrovano a oscillare tra il romanticismo tragico e l’autonomia radicale.E, come direbbe Lady Oscar, a portare “la spada più affilata delle opinioni altrui”.


Lady Oscar: la rivoluzione in divisa

Versailles no Bara (in Italia Lady Oscar), creato da Riyoko Ikeda nel 1972 e trasmesso negli anni ’80, non fu solo un anime. Fu una lezione di filosofia politica in chiave melodrammatica.In un tempo in cui le bambine venivano educate alla grazia e alla pazienza, Oscar François de Jarjayes insegnava che si può essere donna e comandante, bionda e indomabile, sentimentale e sovversiva.

Simone de Beauvoir, nel Secondo sesso, scriveva che “donna non si nasce, lo si diventa”. Lady Oscar ribaltava la formula: mostrava come si possa essere donna anche senza assomigliare a nessuno. Era il femminismo prima del femminismo pop, la libertà rappresentata con un’estetica da tragedia francese e la fermezza di una soldatessa.L’amore per André non era salvezza, ma resistenza condivisa. Non la promessa di un lieto fine, ma il diritto di scegliere chi combattere accanto.

La cultura italiana, come notava Umberto Eco nei suoi saggi sulla televisione, ha sempre vissuto una tensione tra “pedagogia e spettacolo”. Lady Oscar riuscì a essere entrambe le cose. E formò una generazione che, anche da adulta, avrebbe imparato a “cadere con stile”.


Candy Candy: l’educazione sentimentale della sofferenza

Se Lady Oscar insegnava la ribellione, Candy Candy insegnava la resilienza passiva.Dietro la dolcezza del tratto di Yumiko Igarashi si nascondeva un addestramento emotivo severo: l’amore è sofferenza, ma se sorridi, forse sarai degna di riceverlo.Anthony muore, Terence ti tradisce, Albert si rivela un padre travestito da principe: Freud avrebbe chiesto la censura immediata. Eppure, le bambine italiane degli anni ’80 ne assorbivano il messaggio sottile: “se soffri, vali”.

La psicologa e saggista Susan Faludi, nel suo celebre Backlash (1991), spiegava come la cultura pop avesse spesso mascherato il controllo patriarcale dietro figure femminili apparentemente forti ma moralmente sottomesse. Candy è l’esempio perfetto: la donna che non rompe mai, non protesta, ma “capisce sempre”.Quella che, da adulta, dice “forse ha i suoi motivi”.Ecco da dove nascono – ironia della sorte – le professioniste competenti e pazienti di oggi, capaci di reggere tutto tranne la propria stanchezza.


Pollon e Lamù: la rivoluzione dell’impertinenza

Poi arrivò Pollon, piccola dea pasticciona, e scardinò l’intero impianto pedagogico.Con lei, la disobbedienza diventò virtù. La bambina che ride, mente e inciampa senza chiedere scusa incarnava, come direbbe la teorica dei media Angela McRobbie, il passaggio dal “femminile disciplinato” al “femminile consapevole”.Pollon non è brava, ma è viva.E quella vitalità, tra un errore e una risata, diventò la prima lezione di autoindulgenza per un’intera generazione.

Poi, Lamù (Urusei Yatsura, 1981).Con i suoi capelli verdi e il bikini tigrato, fu l’icona di una femminilità erotica e autonoma, senza sensi di colpa. Lamù non chiede amore: lo prende, lo fulmina, lo restituisce con interesse.È l’esatto opposto della Candy che perdona.Lamù segna la nascita della donna consapevole del proprio desiderio, l’anticipazione di una cultura post-patriarcale che, come dirà anni dopo Donna Haraway nel Manifesto Cyborg (1985), abbraccia la contaminazione tra corpo, tecnologia e libertà.


Dalle orfane alle guerriere: la generazione “mezzo Candy, mezzo Lamù”

Chi oggi ha cinquant’anni in Italia porta dentro tutto questo.Un’educazione emotiva fatta di orfanotrofi, rivoluzioni e fulmini elettrici.Le donne nate tra i ’70 e gli ’80 sono il risultato di un paradosso: cresciute con messaggi di sacrificio, ma anche con modelli di ribellione.E gli uomini di quella stessa generazione – spettatori silenziosi o innamorati di Lamù – hanno assorbito una visione femminile più complessa, a tratti intimidatoria, a tratti liberatoria.

La cultura pop ha agito, come direbbe Henry Jenkins, da “testo partecipativo”: non solo un prodotto da guardare, ma una matrice identitaria da reinterpretare.E così, tra un duello a Versailles e una scossa intergalattica, l’infanzia televisiva italiana ha prodotto una generazione di adulti che, davanti a un amore finito o a un capo autoritario, ancora pensa:“Posso piangere come Candy, o posso reagire come Lamù. Ma di certo, non mi sposto di un centimetro dal mio campo di battaglia.”


Conclusione: la Bastiglia siamo noi

I cartoni giapponesi degli anni ’80 e ’90 non furono solo evasione: furono educazione estetica, sentimentale e politica.Oggi, nelle pieghe di quella memoria televisiva, si riconoscono le radici di una generazione che non aspetta più il principe, ma pretende rispetto.Che non chiede di essere capita, ma ascoltata.E che, quando la realtà diventa troppo stretta, sente ancora una voce interiore – calma, fiera, con un accento francese:

“Monsieur, la mia spada è più affilata delle sue opinioni.”

Fonti e riferimenti

  • Simone de Beauvoir, Il secondo sesso (1949)

  • Susan Faludi, Backlash: The Undeclared War Against American Women (1991)

  • Donna Haraway, A Cyborg Manifesto (1985)

  • Umberto Eco, Fenomenologia di Mike Bongiorno e altri saggi in Diario minimo (1963)

  • Angela McRobbie, Feminism and Youth Culture (1991)

  • Henry Jenkins, Textual Poachers (1992)

  • Riyoko Ikeda, Versailles no Bara (1972)

  • Yumiko Igarashi & Kyoko Mizuki, Candy Candy (1976)

  • Rumiko Takahashi, Urusei Yatsura (1981)

 
 
 

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