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Dal conflitto alla corresponsabilità: simulazione di mediazione organizzativa in un’associazione di volontariato


1. Introduzione teorica

Le organizzazioni di volontariato si caratterizzano spesso per la compresenza di ruoli operativi e decisionali, affidati a soggetti che agiscono su base volontaria.

In tali contesti, il conflitto relazionale può diventare cronico, generando inefficienze e logoramento del gruppo.


Secondo la prospettiva della giustizia riparativa e della mediazione umanistica, il conflitto non va trattato come semplice problema tecnico, ma come manifestazione di relazioni ferite, dove il recupero della fiducia e della comunicazione autentica diventa prerequisito per il buon funzionamento dell’organizzazione (Zehr, 2002; Ferrari, 2017; Lenzi, 2021).


A differenza delle pratiche di negoziazione orientate al risultato immediato o alla redistribuzione delle responsabilità (Fisher, Ury, & Patton, 2011), la mediazione riparativa si concentra su:

  • ascolto empatico delle emozioni;

  • riconoscimento reciproco dei bisogni e delle difficoltà;

  • co-costruzione di modalità operative condivise, basate su fiducia e corresponsabilità.


In questo quadro teorico, il gruppo non è un insieme di individui separati, ma un organismo relazionale capace di autoregolazione e autopoiesi (Maturana & Varela, 1980; Capra, 1996).


2. Metodologia

La simulazione presentata riguarda il consiglio direttivo di sei volontari, tra cui il responsabile delle campagne di fundraising, che accumula ritardi e tensioni.

Il gruppo decide di intraprendere un percorso di mediazione organizzativa in chiave riparativa, condotto da una mediatrice esperta nella giustizia riparativa applicata ai contesti organizzativi.


Il percorso si articola in una sessione di mediazione con l’obiettivo di:

  1. esplorare le emozioni sottostanti al conflitto;

  2. riconoscere le responsabilità individuali e collettive senza colpevolizzazione;

  3. co-costruire modalità operative condivise e sostenibili.

Gli strumenti utilizzati includono: ascolto attivo, riformulazione empatica, domande maieutiche e simbolizzazione dei valori condivisi.


3. Simulazione


3.1. Contesto del conflitto

L’associazione “Orizzonti Comuni” gestisce eventi culturali ed educativi. Giuseppe, responsabile delle campagne di fundraising, accumula ritardi nel diffondere informazioni e aggiornamenti, mentre gli altri membri del direttivo tendono ad attribuire la responsabilità unicamente a lui.

Il clima è segnato da non detti, tensioni latenti e isolamento relazionale.

La mediazione viene convocata per riattivare il dialogo e la fiducia all’interno del consiglio.


3.2. Apertura della sessione

La mediatrice introduce lo spazio dicendo:

“Non cerchiamo colpevoli, ma vogliamo capire come il vostro gruppo si è ferito e come può ricostruirsi. Questo è uno spazio di ascolto, non di giudizio.”

Il gruppo mostra inizialmente tensione e diffidenza, ma manifesta disponibilità a raccontare le proprie percezioni.


3.3. Racconto dei vissuti

  • Elena (presidente): esprime frustrazione per i ritardi di comunicazione, riconoscendo al contempo che la responsabilità non è solo di Giuseppe.

  • Chiara (tesoriera): ammette di aver evitato il confronto diretto, alimentando il silenzio e il malinteso.

  • Giuseppe (fundraising): descrive il senso di isolamento e sovraccarico, lamentando mancanza di supporto e paura di essere giudicato.

La mediatrice enfatizza il riconoscimento delle emozioni: rabbia, solitudine, vergogna e frustrazione emergono come indicatori di disfunzione relazionale, non come difetti individuali.


3.4. Riconoscimento reciproco

Ciascun membro esprime ciò che ha riconosciuto nell’altro:

  • Elena riconosce la difficoltà di Marco nel gestire da solo i compiti.

  • Chiara riconosce il proprio atteggiamento di evitamento.

  • Giuseppe riconosce che il suo silenzio ha contribuito all’escalation.

Questo momento consente di trasformare la colpevolizzazione individuale in responsabilità condivisa, riportando il gruppo al piano della relazione.


3.5. Co-costruzione delle modalità operative

La mediatrice guida il gruppo verso un patto relazionale operativo:

  • riunioni periodiche per condividere lo stato dei progetti;

  • redistribuzione dei compiti con rotazione delle responsabilità;

  • apertura a chiedere aiuto senza timore di giudizio;

  • comunicazione chiara e trasparente sulle scadenze.

Si introduce infine un momento simbolico: ciascun membro sceglie una parola-valore da rappresentare quotidianamente nel consiglio:

Trasparenza (Elena), Fiducia (Giuseppe), Cura (Chiara).

3.6. Conclusione della sessione

La mediazione chiude con la consapevolezza condivisa che:

  • il conflitto non è un nemico, ma un messaggio relazionale;

  • la responsabilità è collettiva e dinamica, non individuale;

  • le emozioni possono diventare strumenti di apprendimento organizzativo.

Il gruppo esce con un senso di rinnovata corresponsabilità e motivazione, pronto a sperimentare il nuovo assetto operativo.


4. Riflessione conclusiva

La mediazione organizzativa in chiave riparativa dimostra come la giustizia riparativa possa essere applicata anche nei contesti associativi e volontari.

A differenza delle tradizionali tecniche di negoziazione orientate alla produttività, la mediazione riparativa:

  • integra emozione e razionalità;

  • favorisce la rigenerazione della fiducia;

  • produce processi autopoietici, in cui il gruppo stesso diventa artefice della propria riparazione e del miglioramento dei processi (Maturana & Varela, 1980; Capra, 1996).

In questo senso, il conflitto diventa una chiamata alla corresponsabilità, trasformando la frattura relazionale in opportunità di crescita organizzativa e relazionale.



Trascrizione della seduta di mediazione:


La sessione di mediazione


Fase 1 – Apertura

Mediatrice:“Vi ringrazio per essere qui. Questo spazio serve a comprendere non solo cosa non funziona, ma cosa ognuno di voi vive dentro di sé in questa situazione.Oggi non cerchiamo colpevoli, ma vogliamo capire come la vostra collaborazione si è ferita e cosa serve per guarirla.

(Il gruppo è seduto in cerchio. Le espressioni sono tese, ma attente.)


Fase 2 – Racconti iniziali

Elena (presidente):“È da tempo che il nostro lavoro si è appesantito. Ogni volta che dobbiamo comunicare qualcosa, arriviamo tardi. E inevitabilmente il problema è sempre Giuseppe. Ma forse siamo stanchi tutti.”

Mediatrice:“Quindi da una parte c’è la frustrazione per i ritardi, ma dall’altra riconosci che non è solo un problema individuale.”

Chiara (tesoriera):“È vero. Io stessa ho smesso di proporre soluzioni perché tanto sembrava inutile. Ma mi dispiace. Sento che non ci ascoltiamo più.”

Giuseppe (Fundraising):“Mi sento messo all’angolo. Quando arrivano critiche, è sempre e solo contro di me. Ma nessuno si rende conto che faccio anche il lavoro di due persone. E quando chiedo aiuto, mi dicono che non c’è tempo.”

Mediatrice:“Mi sembra che qui ci siano due sentimenti forti: da un lato il senso di isolamento di Giuseppe, dall’altro la frustrazione e l’impotenza del gruppo. Entrambi parlano di mancanza di rete. Vi ritrovate?”

(Annuiscono. Il tono si addolcisce.)


Fase 3 – Esplorazione delle emozioni e dei non detti

Mediatrice:“Vorrei che provassimo a dire cosa provate, non cosa pensate. Qual è l’emozione che abita questo conflitto?”

Elena:“Rabbia. Ma anche delusione. Avevo fiducia, e ora mi sembra che tutto si stia sfaldando.”

Giuseppe:“Mi sento solo. E, sinceramente, anche offeso. Perché non mi è stato mai chiesto come stavo.”

Chiara:“Io sento vergogna. Perché abbiamo lasciato che la cosa andasse avanti così, e non abbiamo mai avuto il coraggio di parlarne apertamente.”

Mediatrice:“È molto importante quello che state dicendo. La rabbia, la solitudine e la vergogna sono tutte emozioni di perdita di contatto. Oggi, il vostro direttivo non è un gruppo che litiga, ma un gruppo che ha smesso di sentirsi insieme. E il conflitto è un modo per dire: ‘torniamo a sentirci’.”

(Il clima si ammorbidisce. Alcuni si commuovono.)


Fase 4 – Riconoscimento reciproco e responsabilità condivisa

Mediatrice:“Proviamo ora a dire, ciascuno, cosa riconoscete nell’altro. Cosa vi ha fatto comprendere questo ascolto?”

Elena:“Riconosco che non mi sono mai chiesta davvero quanto fosse difficile per Giuseppe gestire tutto da solo.”

Chiara:“Riconosco che è stato più comodo dare la colpa a lui, invece di chiederci come potevamo collaborare meglio.”

Giuseppe:“Riconosco che il mio silenzio ha peggiorato le cose. Mi chiudo quando mi sento giudicato, ma questo ha solo alimentato la distanza.”

Mediatrice:“Ecco, questo è il punto di svolta. Non serve trovare chi ha sbagliato, ma riconoscere che il sistema si è sbilanciato.La responsabilità diventa allora un atto collettivo: ognuno può contribuire alla riparazione.”


Fase 5 – Co-costruzione di nuove modalità operative

Mediatrice:Se volessimo immaginare come ripartire, non in termini di compiti ma di relazioni, cosa dovrebbe cambiare?”

Elena:“Vorrei che ci fosse un momento fisso di confronto prima di ogni scadenza, per capire se qualcuno ha bisogno di supporto.”

Giuseppe:“Io vorrei poter dire quando non ce la faccio, senza paura di essere giudicato. Mi piacerebbe che ci fosse più trasparenza e meno sospetto.”

Chiara:“Potremmo fare piccoli gruppi per progetto, non lasciare mai che un’attività resti sulle spalle di uno solo.”

Mediatrice:“Mi sembra che state costruendo una rete di corresponsabilità. Questo non è solo un piano operativo: è un modo nuovo di essere gruppo.”


Fase 6 – Chiusura simbolica

Mediatrice:“Vorrei chiedervi di scegliere una parola che rappresenti la qualità che volete portare da domani nel vostro consiglio.”

Elena: “Trasparenza.”Giuseppe: “Fiducia.”Chiara: “Cura.”

Mediatrice:“Ecco, trasparenza, fiducia e cura. Tre parole che, insieme, possono ricostruire la vostra rete. Vi invito a scriverle e tenerle nel luogo delle riunioni, come promemoria del vostro impegno relazionale.”

(Il gruppo conclude con un sorriso collettivo. La tensione si è trasformata in disponibilità.)


4. Riflessione metodologica

Questo esempio mostra come la mediazione organizzativa in chiave riparativa agisca non sui contenuti operativi del conflitto, ma sul clima relazionale che li sostiene.L’obiettivo non è “redistribuire i compiti”, ma riattivare la comunicazione emotiva e ristabilire la fiducia sistemica.

A differenza delle tecniche di team coaching o problem solving, la mediazione riparativa:

  • considera il gruppo come un organismo vivente, dotato di autoregolazione (Capra, 1996; Morin, 2001);

  • favorisce la presa di responsabilità diffusa e non la colpevolizzazione individuale;

  • restituisce valore alla dimensione affettiva del lavoro volontario, che è il cuore delle organizzazioni civiche.

In termini sistemici, la mediazione genera un processo autopoietico e autopromozionale (Maturana & Varela, 1980): il gruppo, attraverso la parola e l’ascolto, produce le proprie condizioni di rigenerazione.Il conflitto si rivela così non una minaccia, ma una chiamata alla consapevolezza collettiva — un’occasione per ritrovare senso e coerenza nella propria missione associativa.


Bibliografia essenziale

  • Braithwaite, J. (1989). Crime, Shame and Reintegration. Cambridge: Cambridge University Press.

  • Capra, F. (1996). The Web of Life: A New Scientific Understanding of Living Systems. New York: Anchor Books.

  • Ferrari, M. (2017). Il Metodo Medianos. La mediazione dei conflitti centrata sulla persona. Milano: FrancoAngeli.

  • Lenzi, L. (2021). La mediazione umanistica e il processo di riconciliazione relazionale. Firenze: Centro di Mediazione Umanistica – Edizioni CMU.

  • Lederach, J. P. (1995). Preparing for Peace: Conflict Transformation Across Cultures. Syracuse, NY: Syracuse University Press.

  • Maturana, H., & Varela, F. (1980). Autopoiesis and Cognition: The Realization of the Living. Dordrecht: Reidel.

  • Rogers, C. (1961). On Becoming a Person: A Therapist’s View of Psychotherapy. Boston: Houghton Mifflin.

  • Zehr, H. (2002). The Little Book of Restorative Justice. Intercourse, PA: Good Books.

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